LE MILLE ED UNA FAVOLA DELL’ALBA DI ROMA

I MITI, LE FESTE RELIGIOSE, I RITI

Le origini della religione romana sono controverse. In generale si tende a far coincidere le divinità romane con quelle greche, semplicemente ribattezzate, ma i culti più antichi sono propri dei Romani e hanno una differente genesi. Alcuni storici li ritengono assolutamente primitivi, infarciti solo di superstizioni e magia. Altri sostengono invece che derivino dai più antichi culti indoeuropei e quindi attribuiscono loro una architettura più complessa e già propria.

Qualunque teoria si voglia accettare, è comunque indubbio che il rapporto tra gli antichi romani e le varie divinità ha sempre un carattere prevalentemente pratico. Alla base del sentimento religioso sono in ogni caso i riti religiosi, che sopravvivono nella sostanza quasi inalterati per secoli in una sequela di norme ben definite in cui l'unico interesse evidente è quello di mantenere la cosiddetta "pax deorum", cioè il favore degli Dei.

Guai a indispettire le divinità mancando ai tradizionali rituali in loro onore, guai a non rispettarne la volontà espressa attraverso i "segni" divini, guai a disattenderne le aspettative.

In tutto questo manifesto fatalismo l'uomo romano mantiene però sempre una buona dose di consapevolezza del proprio libero arbitrio. Questo risulta evidente nell'interpretazione di quelli che sono ritenuti i messaggi divini (il volo di un uccello nel cielo, il saettare di un fulmine, una frase casualmente udita, l'aspetto delle viscere degli animali sacrificati…), perché coloro che sono chiamati ad interpretare le volontà degli dei sono depositari di uno smisurato potere su tutta la comunità, spesso esercitato con precise finalità politiche.

La religione è per molto tempo una questione prevalentemente comunitaria, che esula dalla ricerca intima e personale di ciascuno. E' tutta la città ad esserne coinvolta; è l'intera famiglia, schiavi compresi, la cellula di base dove vengono svolti i riti privati officiati dal pater familias. Anche una semplice trasgressione individuale coinvolge tutta la comunità che viene perciò chiamata ad intervenire e a porvi rimedio. Per il romano antico non esiste un "sentimento" religioso intimamente vissuto. L'uomo "pius" è, dal punto di vista religioso, semplicemente colui che sa rispettare alla lettera le tante prescrizioni rituali.

Dotati soprattutto di grande capacità organizzativa e generalmente poco interessati alla speculazione filosofica, i romani attribuiscono qualsiasi aspetto della vita ad una specifica divinità, aumentando il numero dei numina ( i poteri divini) a dismisura, siano essi maschili, femminili o ermafroditi. Molto spesso ad un unico dio vengono attribuiti vari epiteti a seconda di una sua particolare "specializzazione". Questo è tanto vero che nel volume di Alan Bouquet "Breve storia delle religioni", viene citata la dea Cloacina quale protettrice dei…servizi igienici!

"Cloacina" è infatti un epiteto che i Romani attribuiscono a Venere riferendosi ad una sua statua ritrovata allo sbocco di una cloaca nel Tevere, senza tuttavia nulla voler togliere alla leggiadria della dea perché, nonostante l'accostamento ad una fogna, il termine significa semplicemente "Purificatrice". Basilari in questi primi stadi del culto sono anche i concetti di contaminazione, impurità e purificazione, fulcro comune della religiosità di molti popoli.

Per gli uomini antichi è fondamentale sapere bene ciò che è necessario fare per purificarsi e ristabilire l'armonia con il mondo divino dopo essere stati contaminati. Ciò che maggiormente può rendere impuri è il contatto con la morte e con il delitto e la possibilità che questo accada, anche accidentalmente, è ineluttabile. L'esperienza insegna che chiunque può correre un tale pericolo, anche colui che più incarna doti di coraggio, forza, lealtà e saggezza. E' illuminante, per chiarire questo concetto, ciò che ci viene tramandato attraverso alcuni miti antichi. A questo proposito, bello e significativo è l'episodio che vede come protagonista Enea, eroe per eccellenza, durante il suo vagabondare alla ricerca del Lazio.

Virgilio ci racconta infatti che un giorno Enea approda sulla costa tracia. Volendo fondare qui una città comincia a porne le fondamenta e, per ingraziarsi gli dei, decide di offrire loro un sacrificio augurale. Per ornare l'altare strappa le fronde di un mirto e di un corniolo ma, non appena ha reciso la prima foglia, da questa inizia a sgorgare del sangue nero e immondo che gocciola a lordare il terreno. Strappa una seconda foglia e una terza, ma lo stesso prodigio di ripete fino a che una voce flebile e spaventosa si leva da sotto terra. E' Polidoro, figlio di Priamo, inviato dal padre durante l'assedio di Troia presso il re di Tracia Polimestore con un prezioso carico d'oro. Violando ogni regola dell'ospitalità, Polimestore si è impadronito delle ricchezze di Polidoro facendolo assassinare senza nemmeno dare al cadavere una degna sepoltura. Il corpo del giovane viene abbandonato sul terreno e dalle frecce che gli sono ancora conficcate addosso nasce la pianta dalla quale Enea cerca di strappare i rami. La terra che nasconde l'orrendo delitto è ora maledetta e lo stesso inconsapevole Enea ne è stato contaminato, sebbene i suoi gesti siano stati dettati dalle migliori intenzioni (offrire agli dei un sacrificio).

Per i romani esiste sempre un rapporto molto stretto tra il divino e il quotidiano e i miti si inseriscono continuamente in questo contesto. Ad essi i romani fanno assumere una caratterizzazione del tutto propria tanto che, anche quando sono di derivazione più antica, vengono rivisitati, applicati al vissuto e alla narrazione storica. In una parola, "umanizzati".

I MITI DELLE ORIGINI

Svariate e affascinanti sono le fonti dalle quali attingere la storia delle origini di Roma ma molte di queste, dagli scritti di Livio, Virgilio, Ovidio a quelli di Marco Terenzio Varrone, risalgono al I secolo a.C. e quindi a sette secoli dopo la tradizionale fondazione di Roma. A loro volta, poi, sono derivate da opere precedenti delle quali sono sopravvissuti fino a noi solo pochi frammenti.

Considerando la propensione degli autori Romani a dare un alto valore aggiunto dal punto di vista didattico e letterario alle proprie opere, non è un mistero che molte delle storie ripescate dalle fonti più antiche, a volte anche contrastanti tra loro, vengano rimaneggiate dagli scrittori successivi nella ricerca dei valori morali e delle virtù patriottiche da tramandare ai posteri, i cosiddetti exempla.

Negli "Annali" di Ennio, il primo poema nazionale sulla storia di Roma risalente al III secolo a.C. troviamo infatti scritto: "moribus antiquis res stat Romana virisque" (i valori romani si basano sui costumi e sui cittadini antichi).

Evidente è ancora l'interpretazione del passato in base alle esigenze politiche del presente per ciò che riguarda l'origine delle più antiche famiglie (Fabi, Valeri, Claudi e la stessa gens Giulia) i cui alberi genealogici sono una pura creazione letteraria. Seppure attratti dalla storia del proprio passato, i Romani infatti non provano nessun particolare desiderio speculativo di ricerca della verità. Ciò che a loro basta è dotarsi di una rassicurante certezza sul fatto di poter vantare un'origine accettabile e gradita, non a caso, quindi, costruita "ad hoc". 

Possiamo farci un'idea più precisa di questi travagli letterari e mitologici esaminando alcuni dei miti sulle origini di Roma.

Enea, Romolo e Remo.

Il mito di Enea è antico, tanto che le prime versioni sono già note in Etruria prima del VI secolo a.C. e in Grecia nel V secolo e farebbero derivare il nome di "Roma" da quello di una donna troiana con il significato di "forza".

Enea è figlio di Anchise, un mortale, e della dea Venere. Regna sui Dardani, alle falde del monte Ida nella Troade e partecipa solo alla fase finale della guerra di Troia in aiuto di Priamo, con il quale è imparentato avendone sposato la figlia Creusa. Non essendo un troiano, Enea piace particolarmente ai Romani quale capostipite perché consente loro di affondare le radici in una civiltà dal fulgido passato e nel contempo di distinguersi dai Greci senza esserne i più fieri antagonisti, soluzione che oggi definiremmo "politically correct".

Anche la leggenda di Romolo e Remo, dapprima alternativa e a sé stante, viene successivamente integrata nel mito di Enea tanto che in un primo momento i due gemelli vengono indicati come suoi figli o nipoti.

Eratostene di Cirene si accorge tuttavia che, poiché la data della caduta di Troia doveva essere all'incirca il 1184 a.C., né Enea né i suoi più diretti discendenti possono aver fondato Roma, tradizionalmente sorta nel 754 a.C.

A rendere plausibile la storia pensa Catone il Censore con un'abile invenzione. Secondo la sua versione, accettata poi come definitiva, Enea fugge da Troia portando in salvo il vecchio padre Anchise e il figlio Ascanio e perdendo Creusa tra le fiamme della città devastata. Giunge poi nel Lazio.

Dopo aver sposato Lavinia, figlia di Latino, un re locale, avrebbe poi fondato Lavinium. Ascanio, noto anche col nome di Julo, è invece il fondatore di Alba Longa e i suoi successori danno origine alla dinastia dalla quale, dopo varie generazioni, nasceranno Romolo e Remo e in seguito la gens Julia, con Giulio Cesare e il primo imperatore Augusto.

Virgilio ci dà una versione avventurosa del viaggio di Enea fino alle coste italiane, al quale sono dedicati tutti i primi sei libri dell'Eneide. Ovviamente le traversie del nostro eroe non sono immuni dall'intromissione di forze divine. Giunone non ha ancora dimenticato l'umiliazione per non essere stata scelta da Paride come la più bella dell'Olimpo in quello che tutti ricordano come l'antefatto della guerra di Troia e cova ancora rancore nei confronti di Venere, incoronata a dea della bellezza con la consegna del famoso pomo d'oro. Non le par vero, quindi, di ostacolare in tutti i modi Enea, figlio della sua rivale, nel lungo viaggio alla ricerca del Lazio.

Con qualche acrobazia cronologica Virgilio dà un'ulteriore motivazione alle ire della dea nei confronti di Enea. Giunone sarebbe infatti anche la divinità protettrice di Cartagine, l'acerrima nemica di Roma. Presupponendo erroneamente l'esistenza di Cartagine già ai tempi di Enea (le origini di Cartagine e di Roma sono infatti più o meno contemporanee), Virgilio spiega che Giunone si accanisce tanto contro Enea per non consentirgli di raggiungere il Lazio dove è predestinato a dare origine alla progenie che porterà Cartagine alla rovina.

Viaggio di Enea secondo Virgilio  (linea verde) e Dionigi di Alicarnasso (linea rossa) Ricostruzione di M.T.D'Alessio

Viaggio di Enea secondo Virgilio (linea verde) e Dionigi di Alicarnasso (linea rossa)

E' proprio a Cartagine che Enea vive una intensa e drammatica storia d'amore con la regina Didone. Giunone guarda con benevolenza ai due amanti sperando che Enea, vinto dalla passione, decida di mettere fine al suo vagabondare. Giove, tuttavia, invia Mercurio a sollecitare Enea alla partenza e questi obbedisce, abbandonando Didone. Disperata, la bella regina si suicida lanciando strali di maledizione contro Enea e la sua progenie e Virgilio ci regala in proposito pagine di commovente levatura poetica. Nel girovagare di Enea non manca nemmeno una capatina negli inferi, perché prima di giungere nel Lazio, l'eroe viene accompagnato dalla Sibilla di Cuma in un mondo dei morti, dove incontra il padre Anchise che gli profetizza la futura grandezza di Roma.

Sempre secondo la leggenda, dopo quattro anni di regno, Enea sarebbe stato assunto in cielo tra lampi e tuoni durante una battaglia contro gli Etruschi nelle vicinanze del fiume Numicio e ricevuto nell'Olimpo insieme agli dei. E' interessante notare che anche a Romolo viene decretata la stessa fine, per cui, a buon titolo poterono successivamente essere deificati anche Giulio Cesare e Augusto, suoi lontani discendenti. Comunque la si metta, le origini divine dei fondatori di Roma sono incontrovertibili. Infatti, se si accetta Enea quale capostipite, si trova Venere come primigenia madre; se si dà un'occhiata alle più arcaiche leggende si incontra il solo Romolo figlio di Zeus, senza la presenza del fratello; se si valutano le successive elaborazioni, Romolo e Remo sarebbero i gemelli figli di Marte e Rea Silvia, altro personaggio universalmente noto.

Secondo una versione della leggenda Rea Silvia sarebbe una figlia di Enea e si sarebbe anche chiamata Ilia, forse per ricordare il collegamento di Roma con Troia ("Ilio" in greco).

Più conosciuta, invece, la versione secondo la quale Rea Silvia sarebbe la vestale figlia di Numitore e nipote di Amulio, entrambi discendenti di Ascanio. Costretta a prendere i voti dal malvagio zio, interessato a che il fratello detronizzato non potesse avere discendenti maschi, Rea Silvia conosce l'amore di Marte, ma il fatto di portare in grembo un frutto divino non le consente di scampare alla punizione prevista per una vestale che abbia infranto il voto di castità.

La poveretta viene imprigionata a mandata a morte dopo la nascita dei due bambini, anche se il dio del fiume Aniene, nel quale è stato buttato il cadavere della giovane, impietosito, le restituisce la vita. I due gemelli, semplicemente abbandonati in una cesta alla corrente del fiume, vengono lasciati dal turbinio delle acque ai piedi del fico "Ruminale" e allattati dalla famosa lupa. Trovati dal pastore Faustolo, vengono cresciuti da lui e da sua moglie, Acca Larenzia.

A questo proposito, attribuendo a Faustolo una consorte poco virtuosa, qualcuno ipotizza anche che la lupa possa essere la stessa Acca Larenzia ("lupa" è uno dei nomi per indicare una prostituta, da cui il temine "lupanare").

Comunque sia, i gemelli vengono allevati fino a che, divenuti grandi, non riescono a vendicare il nonno spodestando il traditore Amulio.

Per inciso, secondo un'altra leggenda, Acca Larenzia sarebbe stata invece una bella fanciulla "vinta" da Ercole durante in una partita ai dadi con il custode del suo tempio. Dopo aver consumato una notte d'amore con lei, Ercole si "sdebita" consigliandole di sposare il primo uomo che incontrerà quella stessa mattina. Acca Larenzia ubbidisce e si ritrova moglie di Taruzio, uomo ricchissimo e dalla vita breve che la lascia ben presto erede di numerosi terreni. A sua volta la donna elargisce la sua eredità all'intero popolo romano. Non c'è dubbio che questa versione della leggenda altro non serve ai Romani se non a giustificare una sorta di diritto ereditario sui territori di cui aspirano avere il possesso.

Ma tornando a Romolo e Remo, i due fratelli stabiliscono di fondare una nuova città e qui la leggenda si riempie di presagi. Decidono di osservare i "segni" degli dei, guardando il volo degli uccelli e si appostano rispettivamente sul Palatino e sull'Aventino. Remo avvista per primo sei avvoltoi. Romolo, successivamente al fratello, ne scorge dodici. Segue una mortale disputa su quale dei due presagi abbia maggior valore, se il primo in ordine di tempo o quello con un più elevato numero di uccelli e Remo ha, come tutti sanno, la peggio. Secondo un'altra versione i due fratelli litigano perché Remo, volendo deridere e oltraggiare il fratello, oltrepassa armato il confine delle mura che Romolo sta tracciando con un aratro. Il risultato è comunque, anche in questo caso, l'uccisione di Remo da parte di Romolo. Il rituale di fondazione della città compiuto da Romolo fa parte della tradizione romana più antica e in seguito viene ripetuto ogniqualvolta deve essere fondata una nuova città, sia in epoca repubblicana che imperiale. Catone, nel II secolo a.C. lo descrive nelle sue Origini : "I fondatori di una città aggiogavano un toro a destra e una vacca dalla parte interna. Cinti alla maniera di Gabii, (vestiti alla maniera dei sacerdoti durante una cerimonia religiosa, ndr) e cioè con il capo coperto da un lembo della toga rimboccata, essi tenevano il manico dell'aratro piegato in modo da far ricadere le zolle all'interno. E nel tracciare il solco in questo modo essi segnavano il luogo delle porte, sollevando l'aratro in corrispondenza delle mura".
Le zolle rovesciate all'interno nel tracciare il solco primigenius (che delimita la città e sul quale sorgeranno le mura) ricoprono una parte di terreno che viene detta pomerium. Quest'area, che non verrà edificata, è una sorta di "zona franca" tra la città vera e propria, nella quale è sacrilego entrare armati, e le mura. E' solo qui che i soldati possono ritrovarsi e combattere per difendere l'abitato dai nemici. Come il pomerium, anche le porte, nel tracciare il cui limite l'aratro viene simbolicamente sollevato dal terreno, non rientrano nella zona sacra della città. Esse rappresentano infatti il collegamento con l'esterno, da esse è necessario poter entrare e, soprattutto, poter far uscire tutto ciò che potrebbe contaminare l'abitato, come i morti. Alla luce di tanta sacralità nei confronti dei confini, si può ben comprendere quale scompiglio possa aver destato Cesare nel suo passaggio armato del Rubicone, il limite che, in tarda età repubblicana, non poteva essere superato da nessun esercito in armi.

La fondazione della città presuppone anche un altro momento ricco di significati religiosi che, se ignorato da Catone, viene però descritto da Ovidio e Plutarco: l'escavazione del mundus, una sorta di pozzo al centro della città. E' dal suo nome che deriva il nostro termine "mondo" ed esso rappresenta per gli antichi il luogo di congiunzione tra la vita e la morte, tra il cielo e la terra. Il mundus mette in comunicazione l'esterno della terra con le sue stesse viscere e con gli esseri infernali che le abitano, oltre che con il mondo degli dei che risiedono in cielo. Nel momento della fondazione della città vengono gettate nel mundus delle zolle di terra provenienti dai diversi luoghi di origine dei nuovi abitanti, dopo di che esso viene rigorosamente tenuto chiuso tranne che il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre di ogni anno. In questi tre giorni si compie il rituale del "mundus patet" ( il mundus è aperto) durante il quale le anime dei defunti possono ritornare nel mondo dei vivi e aggirarsi a loro piacimento per la città.

Tornando ai miti e alla storia di Romolo e Remo, Plutarco riporta una versione dei fatti meno nota e altrettanto fantastica di quella che abbiamo già raccontato.

Il cattivo di turno è questa volta il malvagio Tarchezio, re di Alba, sconvolto per l'apparizione nella sua casa di un fallo infuocato scaturito dalle scintille del camino acceso. Dopo aver avuto diverse notti turbate dalla strana apparizione, Tarchezio interpella l'oracolo di Teti in Etruria che gli suggerisce di far giacere una vergine con il fallo di fuoco. Dall'unione verrebbe generato un figlio baciato dalla fortuna. Tarchezio non esita ad ordinare ad una delle figlie di prestarsi a tale pratica, ma la ragazza, comprensibilmente, non ne vuole sapere. Ad insaputa del padre convince perciò una serva a prendere il suo posto. Non appena Tarchezio si rende conto dell'imbroglio, furibondo, manda a morte le due donne. E' solo per intercessione della dea Vesta che la condanna viene commutata nel carcere e il re promette alle due ragazze di liberarle e farle sposare non appena avranno terminato un lungo lavoro di filatura. Le due poverette filano per giorni interi, ma la notte, per ordine di Tarchezio, altre serve disfano il loro lavoro. Arriva il giorno del parto. La giovane messa incinta dal fallo infuocato partorisce due gemelli che Tarchezio ordina di uccidere, ma colui che è stato incaricato dell'omicidio non ha cuore di portarlo a compimento. Abbandona i due bambini, che vengono trovati e allattati dalla lupa. Il resto è storia nota. E' interessante notare che secondo gli storici, i nomi Tarchezio e Taruzio (il marito della ricca ereditiera Acca Larenzia) non sarebbero altro che una "storpiatura" di Tarquinio (Prisco), nella cui reggia, secondo un'altra leggenda simile a quella dei due gemelli, sarebbe stato concepito Servio Tullio figlio del dio Vulcano e di una serva.

Qualunque sia l'origine di Romolo e Remo, il motivo per cui i fondatori siano due (a parte una prima versione che, come abbiamo visto, prevedeva solo Romolo) è ancora denso di interrogativi. Le spiegazioni possibili paiono diverse a secondo che si voglia vedere in esse un risvolto religioso o politico. Nel primo caso infatti si tende a trovare nella duplicità un collegamento con la mitologia indoeuropea della creazione, mentre altre teorie indicano nei due fratelli il riscontro di due diverse comunità originarie del Palatino e del Quirinale, poi unitesi.

Romolo e Remo sono stati anche da qualcuno paragonati a Caino e Abele, mentre altri ravvisano nella successiva introduzione di Remo nel mito una sorta di idealizzazione della suddivisione sociale tra patrizi e plebei. Qualcuno si è anche interrogato sul fatto che i Romani potessero ammettere un fratricidio, delitto ritenuto tra i più ripugnati, nella saga delle loro origini. Il ritrovamento archeologico di deposizioni umane nelle vicinanze del muro costruito nel VIII secolo a.C. ha fatto ipotizzare che i rituali più arcaici di fondazione delle città potessero prevedere dei sacrifici umani, per cui l'uccisione di Remo da parte di Romolo potrebbe anche essere interpretata sotto questo aspetto. L'imbarazzo derivante dalla morte di Remo e dalla presunta pratica di sacrifici umani, considerati una pura barbarie dai romani impegnati nei secoli successivi a scrivere la propria storia, sarebbe quindi, secondo alcuni storici, il motivo per cui vennero successivamente inserite nel mito altre versioni dei fatti, tese a mitigare le responsabilità di Romolo. Viene infatti anche raccontato dalle fonti che Remo sarebbe morto durante una scaramuccia per mano di qualcuno che non era certo il fratello.

Rimane però inquietante, sempre a proposito di sacrifici umani, la presenza degli antichi riti della devotio e degli "Argei". Raymond Bloch scrive al riguardo: "…I romani vi ricorrevano in momenti critici e in essi si esprime pienamente la loro stessa psicologia religiosa. Il rito della devotio risale a un'epoca nella quale si praticavano sacrifici umani, divenuti rarissimi in epoca storica. I momenti drammatici che Roma visse al momento dell'avanzata vittoriosa di Annibale in Italia riportarono eccezionalmente alla luce questa pratica selvaggia. I Romani non conoscevano ormai altro che sacrifici sostitutivi, il più noto dei quali era quello degli Argei. Ogni anno, il 15 maggio, Pontefici e Vestali lanciavano nel Tevere, dal Ponte Sublicio, ventisette o trenta manichini di giunco, detti Argei. Sicuramente si doveva trattare di un reminiscenza di un sacrificio ctonio, offerto a Saturno, in vittime umane…".(cfr Storia delle religioni - H.C. Puech vol. 1,2 pag. 549 ed. Librairie Gallinard 1970-76)

Tito Livio ci propone la descrizione di una "devotio" praticata dal console Decio durante una dura battaglia contro i Sanniti in cui l'esercito romano è ormai in rotta. Decio, su consiglio di uno dei Pontefici, decide di sacrificare la propria vita agli dei in cambio della salvezza del suo esercito. Si veste con la toga, si benda il capo, pone il piede su un giavellotto posato a terra e pronuncia una formula rituale nella quale invoca tutti gli dei offrendo loro la vita e, contemporaneamente, gli eserciti nemici ai Mani e alla terra. Il racconto di Tito Livio continua con la descrizione di Decio che, trasfigurato dalla invocata comunione con il mondo divino, si scaglia a cavallo contro l'esercito nemico con una tale foga da spaventare mortalmente i nemici e metterli in fuga. Riguardo agli Argei, invece, esistono altre e diverse interpretazioni. Secondo una prima, il nome potrebbe ricordare i compagni greci di Ercole, che, pur essendosi fermati sul Palatino, avrebbero voluto tornare in patria almeno dopo morti e avrebbero espresso il desiderio che i loro cadaveri fossero gettati nel Tevere e lasciati in balia delle acque. Secondo la leggenda, i Romani, ai quali sarebbe parsa sacrilega qualsiasi mancata sepoltura, avrebbero sostituito i corpi con dei fantocci di giunco.
Attraverso Ovidio, apprendiamo però che a Roma esisteva anche una antica cerimonia detta "gettare gli anziani dal ponte" consigliata da un oracolo e che consisteva nella eliminazione fisica degli anziani. Secondo Ovidio, tale pratica sarebbe stata sostituita dal meno cruento lancio dei fantocci nel fiume. E' assai più probabile, comunque, che l'espressione "gettare gli anziani dal ponte" si riferisse al fatto che, giunti a una certa età, gli uomini non potevano più votare e quindi non potevano più attraversare la passerella che portava ai seggi elettorali.