Il
riscatto degli eroi sul fiume della Grande Guerra
(Sergio Romano)
REVISIONI Un saggio dell’americano Schindler racconta in maniera nuova gli episodi cruciali
del
conflitto tra il giugno 1915 e il novembre 1918.
Gli storici ricordano Caporetto, ma nelle
altre battaglie dell’Isonzo gli italiani furono bravi soldati
A giudicare da una certa storiografia italiana l'unico evento
militare della Grande Guerra che ancora meriti di essere ricordato, è
Caporetto. I grandi protagonisti del conflitto (Badoglio, Cadorna, Diaz, il
duca d'Aosta, Capello, Caviglia) sono scomparsi da molti anni. I «cavalieri di
Vittorio Veneto» e i «ragazzi del '99» ci hanno lasciato silenziosamente, uno
dopo l'altro. I piccoli monumenti «ai caduti», costruiti nelle piazze di tutti i
paesi italiani, hanno smesso di parlare alla gente. Ma sopravvive tenacemente
negli studi storici e politici il ricordo della disfatta.
Strappato al contesto della guerra e proiettato continuamente, con
una specie di compiacimento masochista, sul grande schermo della coscienza
nazionale, Caporetto è diventato simbolo di tutti i vizi italiani, metafora di
tutti i disastri nazionali e chiave di volta della storiografia
antirisorgimentale. Mentre una generazione fu educata nel ricordo della
Vittoria, quelle del secondo dopoguerra sono state allevate nel ricordo della
sconfitta. Quanti italiani sanno che la grande offensiva sferrata dalle armate
austriache e tedesche il 24 ottobre 1917, alle 2 dopo la mezzanotte, dette il
via alla dodicesima battaglia dell'Isonzo? Quanti sanno che le undici battaglie
precedenti furono tra le più dure, sanguinose ed eroiche della Grande Guerra?
Quanti ricordano il nome dei monti e dei paesi che i due eserciti
conquistarono, perdettero e riconquistarono tra il giugno del 1915 e il
novembre del 1918? Agli italiani smemorati lo ricorda un giovane storico
americano, John R. Schindler, autore di un libro ( Isonzo, il massacro
dimenticato della Grande Guerra ), tradotto ora in italiano da Alessandra
Di Poi per la Libreria Editrice Goriziana.
L'autore è uno storico militare, nello stile e nella tradizione
dei migliori studiosi anglo-americani. Le sue considerazioni sulle vicende
politiche che precedettero e seguirono la Grande Guerra, in Italia e in
Austria, sono il risultato di ricerche serie e diligenti, ma non aggiungono
molto a ciò che sapevamo e sono talvolta di seconda mano.
Nella descrizione delle
battaglie, invece, Schindler è preciso, vivace, straordinariamente capace di
creare suspense e attesa anche quando racconta vicende di cui conosciamo
perfettamente l'epilogo. Il suo campo di battaglia è un grande teatro, animato
da personaggi e comparse per cui il lettore prova attrazione o ripulsa. Sul
proscenio, naturalmente, campeggiano i maggiori comandanti italiani, austriaci
e tedeschi, da Cadorna a Boroevic, da Badoglio a Krauss. Ma sul fondo della
scena vi sono attori «minori», colti nel momento in cui la loro vita attraversa
l'Isonzo o il Carso. Sono il caporale dei bersaglieri Benito Mussolini, amato
dagli ufficiali e detestato dai soldati; il tenente Renato Serra, ucciso mentre
precede i suoi uomini all'attacco di una posizione nemica; il ventisettenne
Scipio Slataper, caduto sulle pendici del Podgora; il capitano americano
Fiorello La Guardia, figlio di una ebrea triestina e desideroso di liberare
l'«Italia irredenta»: il giovane filosofo Ludwig Wittgenstein, impegnato in
combattimento contro un corpo inglese sulla linea del Piave; il tenente Erwin
Rommel sulla vetta del Matajur, strappata agli italiani dopo cinquantadue ore di
ininterrotta avanzata.
Non è tutto. Schindler non
si limita a descrivere i disegni strategici e i movimenti delle truppe, le
grandi intuizioni e i calcoli sbagliati.
Nelle battaglie dell’Isonzo
e del Piave vi sono, accanto ai piani dello stato maggiore, gli umori e gli
animi dei combattenti. Anche se trattati spesso dai loro comandanti con
spietata durezza, i soldati hanno forti passioni, odi tenaci e, nei momenti di
maggiore entusiasmo, una divorante volontà di vittoria. Per gli italiani
l'austriaco è il «nemico ereditario». Per i soldati imperiali, soprattutto
austriaci, croati e sloveni, gli italiani sono traditori, felloni, miscredenti.
Ecco le parole con cui il tenente generale Alfred Krauss, comandante del I
Corpo austriaco, parla alle sue truppe nelle ore che precedono l'inizio della
battaglia di Caporetto: «Ricordatevi di questo motto: "Niente quiete né
riposo fino alla disfatta degli italiani". Andate con Dio!».
Inserita nel contesto delle
grandi battaglie che furono combattute sull’Isonzo, Caporetto diventa un
avvenimento più complesso di quanto non risulti dalla storiografia
antirisorgimentale. Gli austro-tedeschi ripresero tutti i luoghi che avevano
perduto negli anni precedenti (Gorizia, Plava, Monte Santo, il San Michele, il
Sabotino, Podgora, Oslavia) e dettero all'Italia un colpo che parve, a tutta
prima, mortale: 300.000 prigionieri, 400.000 disertori, 50.000 morti. Ma furono
fermati sul Piave e non poterono sfruttare il successo. Nei mesi seguenti la
situazione si rovesciò. Mentre Diaz, nuovo comandante supremo, creava con
l'aiuto di Badoglio un nuovo esercito e aveva alle spalle un Paese desideroso
di riscattare la sconfitta, l'Austria era ormai allo stremo delle sue forze.
Vi fu ancora una offensiva nel giugno 1918, quando l'imperatore Carlo
cedette alle pressioni dello stato maggiore germanico e lanciò nuovamente le
sue truppe contro il Piave. Ma fallì ed ebbe conseguenze disastrose sul morale
e sull'unità dell'impero. Già all'inizio dell'anno vi erano stati scioperi e
ammutinamenti a cui il governo aveva cercato di far fronte con una campagna di
«istruzione patriottica» . Più tardi, dopo il fallimento dell’offensiva di
giugno, la crisi economica divenne sempre più grave.
L'esercito, in particolare, mancava di tutto: cibo, armi,
vestiario, assistenza sanitaria. Prevaleva ancora nei reggimenti, nonostante la
straordinaria frammentazione etnica dell'impero, un forte sentimento di lealtà
dinastica. Ma negli ultimi giorni di ottobre, mentre Diaz finalmente passava
all'attacco, la grande macchina militare austro-ungarica cominciò a
sgretolarsi. Alcune formazioni ungheresi abbandonarono il fronte e cominciarono
un lungo viaggio di ritorno attraverso le Alpi. Alcuni generali cominciarono a
chiedersi se il problema più grave, a quel punto, non fosse la restaurazione
dell'ordine in patria contro i movimenti nazionali e rivoluzionari che stavano
ormai agitando l'impero.
Quando fu firmato l'armistizio di Villa Giusti l'Austria-Ungheria era morta. Sopravvisse tuttavia, per una crudele ironia della storia, nei campi di concentramento. Dei 360.000 soldati catturati dalle truppe italiane 108.000 erano tedeschi, 83.000 cechi e slovacchi, 61.000 slavi del sud, 40.000 polacchi, 32.000 ucraini, 25.000 romeni «e persino 7.000 italiani in uniforme austriaca». Schindler non nasconde una certa simpatia per l'impero sconfitto, ma rende a tutti, con l'equilibrio e il distacco dello storico, l'onore delle armi.
Il libro di John R. Schindler, «Isonzo, il massacro dimenticato della Grande
Guerra» (Libreria Editrice Goriziana, pagine 530, euro 19,00)