Badoglio, il generale per tutte le stagioni

di SILVIO BERTOLDI

 

Diceva Guareschi: «Un articolo su Rasputin si legge sempre». Si potrebbe aggiungere, senza offesa, anche su Mussolini. E anche su Badoglio che di Mussolini fu l’antitesi, ma solo nel senso di contrapposizione e di popolarità nel Ventennio, per il legame contraddittorio che li unì e che fece ad un certo punto di Badoglio il vincitore della partita. Dopo averlo servito più o meno fedelmente, ma sempre adulandolo, alla fine gli prese il posto: nell’elenco dei capi di governo italiani, dopo quello di Mussolini v iene il nome suo, Pietro Badoglio. Non certo per una successione democratica, come qualcuno ricorderà. Era un piemontese duro, scettico, cortese, anche un po’ falso. Quando, prima di morire, gli chiesero di dare un giudizio su Mussolini e tutti si aspettavano chissà quali dichiarazioni, disse soltanto: «Mussolini? ’N bun omm», un buon uomo. Difficile trovare nella storia d’Italia del secolo scorso un personaggio delle sue dimensioni, nel bene e nel male. Badoglio fu il protagonista delle tre più grandi tragedie militari e politiche del suo tempo (e del nostro): la catastrofe di Caporetto nel 1917, la guerra di Grecia nel 1940 e la vergogna dell’otto settembre 1943, quella fuga di Pescara con il re che secondo l’interpretazione di molti storici segnò la fine della Patria. O, almeno, di una certa Patria: perché dopo una simile ignominia non ci sarebbero rimasti che gli occhi per piangere. Da queste sconfitte Badoglio riemerse sempre da vincitore, senza mai pagare per le sue responsabilità, salendo ogni volta un gradino più in alto ed anzi proponendosi come il salvatore dell’Italia. E a chiudere la vita lasciando di sé una memoria sotto certi aspetti incancellabile, perché nessuno come lui, tra il 1915 e il 1945, visse tanta storia, cavalcò tanti eventi, precipitò in tanti abissi per rialzarsi in posizioni di maggiore prestigio, quando lo si sarebbe detto sparito di scena. Montanelli definì Fanfani, con un epiteto toscano, «il rieccolo», per dire che tornava puntualmente in sella, ricompariva, ogni volta che lo si pensava eliminato. Anche Badoglio fu un «rieccolo», e di ben altro peso e proporzioni. A Caporetto comandava il XXVII Corpo d’armata. Diceva di avere un piano per prendere in trappola i tedeschi, scesi in Italia a sostenere l’offensiva austriaca del 1917 sull’Isonzo. Invece i tedeschi presero in trappola lui, lo sfondamento avvenne nel suo settore, lui perse il contatto con le sue truppe, dal «buco» lasciato aperto dal suo Corpo d’armata penetrò e vinse il nemico. Perdemmo tutte le posizioni del Carso, la ritirata fu una catastrofe e si fermò solo al Piave. Tutti i generali coinvolti finiron o davanti alla Commissione d’inchiesta tranne il colpevole principale, Badoglio. Il quale fu anzi promosso a vice capo di Stato Maggiore a fianco di Diaz, per scelta, si disse, del re. O, si disse pure, di qualche potere occulto. Era un buon generale, il migliore di un esercito che non brillava. Venuto il fascismo, prima storse il naso, poi capì come andavano le cose e diventò fascistissimo. Nel 1936 ebbe il suo momento di gloria quando, esonerato dal comando De Bono, lo sostituì in Africa e in pochi mesi liquidò l’Etiopia, entrando in trionfo ad Addis Abeba in sella ad un cavallo bianco, ripetendo due volte l’ingresso per soddisfare le esigenze degli operatori dell’Istituto Luce. La vittoria gli valse nuovi onori, nuove prebende, la posizione di numero uno assoluto della gerarchia militare. Quando scoppiò la guerra contro la Grecia nel 1940 il capo era lui ed era a lui che toccava dire a Mussolini (come del resto pensava) che si trattava di una follia. Invece accondiscese ai voleri del dittatore e pagò con finte dimissioni, in realtà cacciato, una sconfitta che avrebbe dovuto toglierlo di mezzo per sempre. Tutte le vicende complesse ed intricate che contraddistinsero la vita di questo personaggio si ritrovano acutamente analizzate e descritte nella biografia che Piero Pieri e Giorgio Rochat gli dedicarono e che viene ora riproposta in edizione popolare ( Badoglio, Oscar Mondadori, pagine 656, euro 10,40). Badoglio meritava uno studio così ampio e intrigante, non fosse che per le sue peripezie personali e quelle dell’Italia. Il culmine di questa reciproca anabasi fu l’otto settembre, quando Badoglio era presidente del Consiglio, dopo essersi preso la rivincita su Mussolini che ne aveva fatto il capro espiatorio della disfatta greca e dell’umiliazione subita. La sera fatale dell’annuncio dell’armistizio, Badoglio lasciò Roma in fuga con il re, abbandonando tutto, esercito, governo, documenti costati poi carissimi a chi glieli aveva indirizzati, per esempio Cavallero e Starace. Arrivò a Brindisi avventurosamente, imbarcandosi prima di tutti a Pescara, lasciando il re e decine di generali col cuore in gola ad aspettarlo ad Ortona. Fu insomma al centro del più grande disastro della nostra epoca. Tuttavia il 29 settembre, a Malta, ricevuto con tutti gli onori sulla corazzata «Nelson» di Eisenhower per firmare l’armistizio, c’è lui. E il primo governo democratico lo presiede lui, e da presidente del Consiglio torna vittorioso a Roma il 4 giugno 1944, pretendendo di conservare il posto «per meriti acquisiti». Risentendosi tremendamente quando il CLN gli diede invece il benservito, ma con la solidarietà nientemeno che di Churchill, tanto per dire quali appoggi si fosse conquistato. Era uno strano uomo. Avido di riconoscimenti, di onori, di denaro. Per poi concludere la vita solo, in una modestissima casa del suo paese natale di Grazzano, avendo nel momento supremo a tenergli la mano la fedele governante e un sottufficiale che gli faceva da autista.