De Rosa: ho scoperto la Patria a El Alamein

(Corriere della Sera 6/12/2002)

D’accordo, a riscoprire il valore italiano ci hanno già pensato gli storici inglesi e il bel film di Enzo Monteleone, per non parlare del fiume di articoli in occasione della recente visita del presidente Ciampi al sacrario di El Alamein. Ma sicuramente di questo diario smilzo, «La passione di El Alamein - Taccuino di guerra, 6 settembre 1942-1°gennaio 1943», che l’editore Donzelli manderà in libreria domani, si continuerà a parlare a lungo.

Innanzitutto perché l’autore, Gabriele De Rosa, il maggiore storico del movimento cattolico, uno dei padri nobili della Prima Repubblica, a lungo senatore e deputato, presidente dell’Istituto Sturzo, con l’eleganza che gli è consueta fa una confessione che sicuramente irriterà e farà discutere: «Il Diario ebbe vergogna a uscire all’aperto quando si alzò quell’ondata revisionistica che fece dell’Italia resistente una massa di attendisti, senza amor di patria, che aspettavano alla finestra il vincitore della partita prima di fare la scelta. Le recenti celebrazioni, alla presenza del capo dello Stato, sul luogo della battaglia dinanzi alle tombe dei caduti di ogni fronte, hanno ricostituito il clima idoneo anche all’amor di patria, salvando nello stesso tempo la nostra memoria». Gabriele De Rosa, classe 1917, aveva dunque 25 anni quando decise di arruolarsi volontario tra i Granatieri del IV battaglione che combatté nel deserto cirenaico-egiziano. Non c’è la pretesa in queste pagine, tirate fuori da un cassetto dov’erano rimaste a ingiallire sessant’anni, di spiegare la strategia di Rommel e Montgomery, dare le motivazioni di vittorie e sconfitte. Il taccuino viene invece presentato per quello che è: la testimonianza fresca, in presa diretta, di un giovane intellettuale italiano che s’è trovato al centro dei fatti. Che forse, un po’ come il Nikolaj Rostov di «Guerra e pace», non può capire il senso generale degli eventi, ma riporta con onestà le cose viste e le sensazioni vissute.
All’inizio, il 17 settembre 1942, giorno dello sbarco a Tobruk, dove gli Alleati sono stati da poco respinti, il sentimento generale è di cauto ottimismo. Poi, sulla linea del fronte, l’impatto con un nemico sovrastante per numeri e tecnologia: duecentomila uomini contro poco più di centomila, 1.500 carri armati contro 500, 1.600 aerei contro i cinquecento degli italo-tedeschi. Giornate di attesa, finché la notte tra l 23 e il 24 ottobre si scatena la battaglia che durerà fino al 4 novembre. Italiani e tedeschi saranno costretti ad arretrare, sul campo resteranno complessivamente 26 mila morti.

Lo stile del racconto è scarno, ma di rara eleganza: «La notte del 23 verso le ore 22, per la lunghezza di una decina di chilometri, mano a mano, da sinistra verso destra, come se un interruttore trasmettesse a intermittenza l’energia, scaturirono un migliaio di lampi...». Ma il testo di De Rosa colpisce non tanto per il suo valore letterario, quanto perché è la testimonianza di una presa di coscienza. Scrive il 22 novembre: «Ricorrono due mesi dallo sbarco in Africa, due mesi che mi hanno fatto vecchio. Il generale ha parlato alle truppe raccolte per rincuorarle. Di che cosa?». E il 27 novembre: «Un fatto dentro di me è certo: che noi italiani abbiamo qui, su queste terre, sofferto questa battaglia, questa guerra, con il cuore, con la memoria, con l’intelligenza, ne abbiamo fatto un tormento per la nostra coscienza».
Un tormento dal quale nascerà la consapevolezza che dopo quella sconfitta niente sarà più uguale. Nelle considerazioni finali, scritte sessant’anni dopo, De Rosa osserva: «Si è fatto un gran discutere su El Alamein, tra fascisti e antifascisti: due letture diverse che non ebbero, a dire il vero, alcun senso per chi vi ha combattuto. Eravamo lì con il giuramento di fedeltà al re e alla bandiera: se c’era un inno che noi granatieri cantavamo era quello del Regno sardo . Chi ci aveva condotto alla catastrofe? Mussolini, nel discorso che tenne alla Camera dei fasci e delle corporazioni il 2 dicembre 1942, non parlò né di sconfitta né di ritirata a El Alamein; non fece, di questa località, nemmeno il nome . Ma «senza El Alamein .- ricordava Leo Valiani - non ci sarebbero stati né sbarco in Sicilia, né Resistenza, né guerra di liberazione».

Dino Messina