L’IDEA ’EUROPA DURANTE LA 2^ GUERRA MONDIALE

Un’interpretazione idealizzante della Resistenza vuole che proprio dai campi di concentramento sia rinata l’idea dell’Unità europea. La comune esperienza di dolore e di sacrificio rende vibrante l’aspirazione ad un ordine di democrazia e di pace. Tuttavia da quella esperienza non nasce un movimento organizzato. Gli stessi comunisti, i protagonisti più numerosi ed organizzati della Resistenza, rifiutavano l’idea dell’unità europea, in nome dell’internazionalismo marxista. Anche l’esperimento della Società delle Nazioni, che era stata incapace di evitare la guerra, alimentava lo scetticismo verso forme d’integrazione sovranazionale.

L’idea della integrazione europea, più che nei Paesi vincitori, si affermava nei Paesi vinti, che vedevano in ciò la possibilità di reinserimento nella comunità internazionale. Essa rimaneva, comunque, minoritaria e si esprimeva soprattutto attraverso il rifiuto di un nazionalismo fomentatore di conflitti.

Singolare fu, invece, il fermento europeista che animò i Paesi Bassi, il Belgio ed il Lussemburgo durante tutto il periodo della guerra e che portò all’unione doganale del Benelux già all’indomani della liberazione e prima della fine della guerra. Questa realizzazione fece da battistrada a più ambiziosi programmi di unità europea.

Il movimento di resistenza italiano fu il più convinto sostenitore dell’unità europea. L’interesse per l’europeismo si era già manifestato durante il ventennio fascista, come opposizione alla politica nazionalista ed all’isolamento culturale del regime mussoliniano. Nel 1935 Carlo Rosselli, fervente assertore del federalismo europeo, anticipava due proposte importanti: un’Assemblea costituente e la sensibilizzazione delle masse popolari. Ambedue queste indicazioni furono accolte dal Movimento federalista europeo (MFE), fondato in Italia nel 1943 che rimarrà l’organizzazione federalista più importante dell’immediato dopoguerra.

Nel Manifesto di Ventotene, elaborato da Calorni, Rossi e, soprattutto, Altiero Spinelli l’Europa federata era vista non solo come la fine dello Stato-nazione, ma la condizione per la nascita di una nuova democrazia, di un nuovo patto sociale e di una nuova cultura politica.

Proprio questa visione totalizzante della federazione europea, se ne costituiva un motivo d’attrazione, ne rappresentava, al tempo stesso, il limite. Proprio per questo, il federalismo italiano rimase sostanzialmente isolato nel panorama federale europeo, caratterizzato da posizioni più moderate e gradualistiche.

Già tra la fine del ’44 ed il ’45, l’europeismo della Resistenza registrava prima il declino e poi la sconfitta sia culturale sia politica. L’ultima impennata era stata la dichiarazione dei resistenti europei del luglio del ’44, che propugnava un’Unione federale per risolvere i problemi della pace duratura.

Poco dopo, tuttavia, gli entusiasmi si stemperarono. Le tradizionali strutture statali ripresero subito il sopravvento. Gli ultimi mesi del ’45 segnarono anche la crisi e la paralisi del Movimento Federale Europeo (MFE).

Tuttavia, proprio in quei mesi, ispirata dall'economista rumeno David Mitrany, nasceva la corrente del “funzionalismo”, destinata ad aprire la strada ad una nuova strategia verso l’Europa.